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Intervista a Maria Vittoria Backhaus
www.mariavittoriabackhaus.it


[15/09/2008]
Maria Vittoria Backhaus nasce nel 1942. Il suo percorso artistico trova spazio negli studi di scenografia all’accademia delle belle arti di Milano, dove frequenta artisti, fotografi e pittori al famoso bar Jamaica (tra i quali Ugo Mulas) che influenzano il suo modo di “vedere” la realtà.
Si afferma nella fotografia per l’editoria e la pubblicità, spazia fra i diversi generi realizzando immagini fuori dal comune, capaci di raccontare storie particolari, in cui determinante è l’influenza degli studi di scenografia.


IIF: Maria Vittoria Backhaus, qualche parola per presentarsi!

MVB: Io sono “un fotografo”! Lo dico sempre al maschile, anche se so che non si dovrebbe! Ma all’epoca non esistevano donne fotografe, ecco mi definisco così! Per me la fotografia è un mestiere al quale sono arrivata molto casualmente. Nella mia carriera non ho mai voluto specializzarmi: mi annoio facilmente, sono molto curiosa quindi tendo sempre a cambiare e a reinventarmi. Ciò che vorrei evitare, benché oggi sia molto richiesto, è essere un fotografo puramente esecutore. Mi piace molto realizzare idee che siano mie, occuparmi della progettualità creativa e non solo dello “scatto”. Questo è il motivo per cui sono sempre stata molto richiesta: non tanto per la tecnica, quanto per l’idea fotografica. Mi è sempre piaciuto cimentarmi nel ruolo di Art Director, misurarmi con la creazione di un’idea. Inoltre mi sento più un “fotografo editoriale” che di pubblicità, benché nella realtà io realizzi molto spesso delle foto pubblicitarie.

IIF: Cosa significa affermarsi in un settore che sembra essere nato a misura maschile?

MVB: Una grande soddisfazione! Purtroppo sono pochissime le donne fotografe che si sono affermate negli anni. All’inizio della mia carriera, quando facevo la reporter, essere una donna era stato un grande ostacolo. Non era solito che le donne fossero fotografe, per ragioni che in realtà sfioravano il ridicolo. Ad esempio la retribuzione era davvero minima e spesso il reporter dormiva con il giornalista. Ecco perché la presenza di una donna sarebbe stata sconveniente. Così come mandare una donna nei paesi arabi per un servizio… impossibile!

IIF: Quando ha deciso di diventare una fotografa?

MVB: Mah forse mai! A 20 anni mi sono sposata con un giornalista che frequentava molti reporter, dal quale ho divorziato dopo 2 anni. Inoltre All’accademia di Brera, al bar Giamaica, ho conosciuto moltissimi grandi fotografi e ho avuto la fortuna di vivere in un periodo meraviglioso dal punto di vista artistico, durante il quale ho stretto un legame con grandi nomi come Ugo Mulas o Mario Dondero. Ho iniziato ad appassionarmi al reportage, anche perché quelli erano anni in cui i giovani erano molto politicizzati e anche io, come gli altri, sono sempre stata molto attiva in politica, di sinistra. Nel ’68 sono andata a Parigi in due occasioni e all’epoca regalavo le foto ai comitati. A me piaceva molto il reportage impegnato e sono riuscita a farlo per un certo periodo, ma poi, essendo donna, andare avanti fu molto complicato, perché erano davvero pochi i lavori che riuscivo a realizzare e a piazzare. I direttori dei giornali erano molto chiusi, quello era un mondo tutto maschile! Inoltre avevo solo 22 anni e vivevo da sola: vendere le mie foto ormai era diventata un’esigenza di vita!

IIF: I suoi studi in scenografia hanno influenzato il suo stile fotografico? E se si, come?

MVB: Mi hanno decisamente influenzata! C’è stato un periodo in cui ero l’unica a realizzare delle foto di moda con delle scenografie spettacolari. Mi piaceva e mi piacciono tuttora: mi divertono molto i set ricchi di oggetti e di persone, le situazioni che raccontano una storia.

IIF: Sin dagli esordi ha sempre spaziato fra diversi generi fotografici: dal reportage alla moda allo still life. Qual è il linguaggio che più la rappresenta?

MVB: In realtà non esiste un genere nel quale io mi riconosca maggiormente. Questo dipende molto dal tipo di lavoro che mi viene richiesto di realizzare!

IIF: Qual è stato il servizio fotografico che le ha dato maggiori soddisfazioni? Il più bello?

MVB: A questo non riesco proprio a rispondere!

IIF: E il più brutto??

MVB: Di brutti tanti! E ce ne sono anche di noiosi! Purtroppo fare il fotografo non è sempre un lavoro meraviglioso!

IIF: Se le chiedono di fare un lavoro che lei trova non essere nelle sue corde, lei cosa fa?

MVB: Lo rifiuto! Ad esempio un tempo mi chiesero di scattare delle foto alle automobili. Mi sono rifiutata: “Non ci riesco”, dissi. Lo trovavo, e lo trovo, così noioso! E soprattutto credevo che ci fosse qualcuno di molto più bravo di me a poterlo fare!

IIF: Le sue campagne vengono definite “fuori dal comune”: lei come le considera?

MVB: Mah… sarà vero? Diciamo che cerco sempre un modo per incuriosire, per inventare qualcosa di innovativo e diverso. Cerco di non essere mai uguale a me stessa.

IIF: Il suo stile forse dipende dal suo modo di concepire la realtà. Cosa significa “vedere” la realtà per lei?

MVB: Io sono una persona poco realista. Da sempre mi piace raccontare delle storie attraverso le mie immagini. Non saprei nemmeno definire cosa sia la realtà! Più che fotografie, le mie sono storie, immaginazioni legate a luoghi, persone, fantasie che vanno oltre il realismo. Le mie immagini sono contraddistinte da associazioni inusuali, in modo da creare sempre un po’ di sorpresa in chi le osserva.

IIF: A proposito di sorpresa: com’è nata la collaborazione con Sergio Colantuoni?

MVB: Il mio percorso professionale mi ha vista passare dal reportage sociale a quello industriale presso le fabbriche, con l’obiettivo di fotografare le condizioni lavorative dell’epoca. Un giorno Flavio Lucchini (padre di testate come Amica, Vogue, L'uomo Vogue, ndr) mi chiese di fare degli still life per l’Uomo Vogue. Da lì è iniziata la mia vita in studio fotografico, sulla base della mia collaborazione con Condè Nast e Vogue durata moltissimi anni. Poi in Condè Nast è arrivata Carla Sozzani che dirigeva Vogue Gioiello e Vogue Bambino eche per me è stata un direttore meraviglioso. Forse l’unica persona in Italia che abbia mai formato fotografi, facendoli crescere. Questo purtroppo oggi non accade più. Sergio Colantuoni era un assistente per L’Uomo Vogue, così ci siamo conosciuti e abbiamo iniziato a lavorare insieme… e non abbiamo più smesso! Il nostro è un lavoro di grande sintonia: riusciamo a intenderci senza nemmeno parlarci! Al momento lui si sta dedicando anche ad altri lavori, quindi mi capita spesso di collaborare con altri stylist, ma ovviamente il feeling che ho con lui è completamente diverso, perché vediamo la realtà alla stessa maniera.

IIF: Quanto conta lo zampino creativo di uno stylist nella progettazione e nella realizzazione di un servizio fotografico?

MVB: Io sono cresciuta in un periodo in cui in Condè Nast il fotografo veniva considerato un “Dio sceso in terra!”. Oggi le parti si sono ribaltate ed è lo stylist ad occuparsi dell’aspetto più creativo del servizio fotografico. Io cerco di sviare perché per produrre al meglio ho bisogno di poter seguire tutto il processo, dall’idea alla sua realizzazione finale. Dopo anni di lavoro in Condè Nast sono passata ad una collaborazione con Io Donna ed è stata un’esperienza bellissima che mi ha consentito di misurarmi con situazioni del tutto nuove, sia insieme a Sergio sia insieme ad altri collaboratori. Sperimentando anche il food, al quale mi sono approcciata senza esperienza e che poi sono riuscita a fotografare con molta libertà. Fotografare il cibo in una maniera così particolare mi ha permesso di spostare l’’immagine della donna, dalla visione della classica casalinga alle prese con la cucina, ad una donna più attuale e moderna. Da questa esperienza è nato “Il pranzo è servito”, una raccolta di immagini di food realizzare negli anni per Io Donna, in collaborazione con Sergio Colantuoni e sulla base delle ricette della giornalista Maria Grazie Borriello.

IIF: Cosa ci dice invece della moda?

MVB: Purtroppo la fotografia di moda a Milano è stata “affossata”: il tradizionale modo di fare fotografia di moda fatto di una miriade di persone, modelle, truccatori, stylist, assistenti è completamente sparito. Oggi è molto più comodo mandare i vestiti all’estero e quindi far produrre le foto fuori. Storicamente la foto di moda si è evoluta di pari passo con la moda italiana. Io ho iniziato a fare moda perché ero molto amica di Walter Albini, stilista, che mi ha trasmesso la passione per questo settore, a me sconosciuto fino ad allora. I miei primi passi quindi sono state delle campagne realizzate per lui e a seguire ho iniziato a collaborare con diverse riviste. All’epoca le mie foto di moda erano ricche di scenografie, cariche di atmosfera, di idee e di storie. La fotografia di moda per me non è ritrarre la modella o l’abito in sé, così come poteva essere per Gian Paolo Barbieri, ma una vicenda da narrare. Il livello di questo tipo di fotografia però oggi nel nostro paese è molto diminuito, poiché per risparmiare si preferisce andare all’estero. Due riviste che sono state in grado di sovvertire questa tendenza sono Io Donna e La Repubblica delle Donne, che utilizzano fotografi italiani contribuendo alla loro crescita.

IIF: Esiste una fotografia che avrebbe voluto scattare lei o una campagna che avrebbe voluto firmare al posto di un suo collega?

MVB: A questo non ho mai pensato! Ci sono tantissimi di fotografi che mi piacciono molto. Ad esempio adoro tutte le foto della Leibovitz, piene di persone e di storie. O ancora le immagini di Tim Walker; ultimamente poi ho avuto una svolta personale e ora amo tutto ciò che è natura, quindi le sue foto mi sembrano ancor di più immagini meravigliose! Trovo poi molto strano e surreale anche Lachapelle, forse un po’ troppo “americano” per i miei gusti, ma comunque un visionario che ammiro.

IIF: Passando alla tecnica: per i suoi lavori si affida da sempre al grande formato. Cosa pensa del digitale?

MVB: Per come la vedo io, il digitale ha sostituito il piccolo formato. Infatti quando viaggio e fotografo all’impazzata uso il digitale! E questo per me è un grande vantaggio, perché scattando milioni di fotografie non saprei come gestire la pellicola. Per i miei lavori prediligo il grande formato perché non esiste una macchina digitale che arrivi a quel formato. Comunque ritengo che con il digitale si perda un sacco di tempo: scattare è molto più veloce ma scegliere le foto e migliorarle in un secondo momento richiede molto più tempo! E inoltre ottenere il risultato che avrei con una fotografia scattata in pellicola mi richiederebbe un lavoro di diversi giorni! Quando lavoro in analogico: quando arrivo allo scatto il mio lavoro è concluso! Sicuramente il digitale ha ormai preso il sopravvento ed è una tecnica alla quale bisogna abituarsi: ma a me in realtà non convince! Per me è troppo faticoso scattare una foto e lavorarla successivamente per farla diventare bella! Bisogna poi distinguere il significato di digitale inteso come fotocamera da quello di digitale inteso come fotoritocco. Si tratta di due concetti ben diversi. E ormai con il fotoritocco digitale si è arrivati a fare chirurgia estetica alle immagini e a me questo non interessa. La tecnologia digitale applicata alle macchine fotografiche invece ha un suo senso per alcuni tipi di lavori che richiedono velocità, tempestività e risultati più quantitativi che qualitativi. Ad esempio, se devo realizzare un look book utilizzo il digitale, di certo non l’analogico! Al contrario, se devo scattare una fotografia “pensata” utilizzerò l’analogico. Un tempo lavoravo solo i 20 x 25 con Polaroid e per un lungo periodo ho utilizzato solo quello. Oggi non fanno più le Polaroid e comunque i costi sarebbero proibitivi, sia per le pellicole che per lo sviluppo.

IIF: Qual è la differenza fra una “bella” e una “buona” fotografia?

MVB: A questo non saprei rispondere… Non è la stessa cosa? A mio parere non esiste differenza fra contenuto e forma. Ciò che è fondamentale per me è avere una “visione”, un pensiero da esprimere. E se la foto scattata riuscirà a trasmettere quella visione e quel pensiero allora sarà buona! Non importa se sarà stata scattata in analogico o in digitale, in studio o fuori!

IIF: Lei ha collaborato con testate di primissimo piano. Quale consiglio si sente di dare ai giovani fotografi d’oggi che volessero raggiungere lo stesso obiettivo?

MVB: Innanzitutto, prima di pensare ad affermarsi o ad arrivare, consiglio di sviluppare una proprio visione, un proprio linguaggio fotografico. Sono convinta che riuscire a realizzare un buon prodotto ed avere una buona idea siano la chiave per poi vendere il proprio lavoro e avere della maggiori possibilità di riuscita.

IIF: Spesso si dice che “la fotografia è donna”. Qual è il suo parere in merito alla fotografia “in rosa”? La fotografia femminile in cosa si differenzia rispetto a quella maschile?

MVB: A mio parere non vi è alcuna differenza fra il modo maschile di fotografare e quello femminile. Paradossalmente le mie foto a me sembrano così poco femminili! A livello stilistico non ho mai avvertito la differenza fra i due generi. Benchè ultimamente questo aspetto si è fatto più forte: oggi mi capitano sempre più spesso clienti che vogliano lavorare con fotografi uomini. E’ come se fossimo un po’ tornati indietro, si dà quasi per scontato che il fotografo sia un uomo anziché una donna. Ma questo forse è tipico della condizione femminile odierna: non siamo poi andati così tanto avanti come si crede! Come donna fotografa sento di dover dimostrare sempre qualcosa in più rispetto ai miei colleghi uomini: anche con i miei assistenti noto che è necessario maggior tempo per avere la loro fiducia e perché riconoscano la mia autorità. La mia agente mi dice che oggi “vendere” una fotografa è molto più difficile che in passato… ma forse io ho anche il problema dell’età, perché faccio parte di una generazione passata. E questo, aggiunto al fatto di essere donna, non fa gioco! Essere donna mi ha sempre aiutata a livello organizzativo, più che artistico. Noto che questo mi agevola molto nel metodo lavorativo: io ho sempre lavorato molto non solo per le mie doti creative, ma anche perché ho sempre consegnato le foto un giorno in anticipo!

IIF: Viviamo nell’era dell’immagine e della comunicazione visiva. Immagini che parlano per noi e che ci rappresentano, divenendo lo spaccato della società del movimento, della velocità, dell’evoluzione tecnologica e del “consumabile”. In questo contesto a suo parere la fotografia si “salva” o viene snaturata rispetto al suo significato originario?

MVB: Io ho la sensazione che la fotografia non sia cambiata e che assolva ancora oggi alla sua funzione originaria. Oggi come prima i fotografi hanno la loro visione, il loro modo di vedere la realtà e di fotografarla. Certo le immagini e il modo di realizzarle sarà sicuramente più attuale, ma il concetto di fotografia a mio parere è rimasto lo stesso. Si, è vero, c’è stato l’avvento del digitale, si sono ridotti i tempi, il modo di fare fotografia è cambiato. Ma la fotografia rappresenta oggi come agli inizi la visione del mondo e della vita del fotografo.

IIF: Qualche parola per concludere: che prospettive ha per il suo futuro?


MVB: Dato il mio amore per le riviste, mi piacerebbe molto riprendere un discorso di collaborazione con l’editoria. Una collaborazione però basata su un particolare progetto creativo, su una mia idea.

IIF: Cosa farebbe se dovesse smettere di lavorare?

MVB: Il mio lavoro mi piace troppo, non credo smetterò mai. E comunque, anche se non dovessi più fotografare, continuerei a scattare per me, a costo di mettere le fotografie nel cassetto. Cosa che in realtà faccio già ora… sono una vera archivista!

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