Home Page

L'accoglimento del caso ovvero la piega
Contatta l'autore
Autore: Elena Bugada - Accademia di Belle Arti - [2007-08]

Documenti

Abstract
Approfittando del legame concettuale che lega l’azione del caso con il fare fotografico e considerando tale trattazione profondamente collegata alla mia tesi precedente , intendo da qui partire per dipanare i fili di un discorso sull’arte del ricevere il circostante nel suo dispiegarsi eventuale. La piega e l’evento saranno dunque i due termini principali su cui verterà questo mio secondo lavoro sull’arte contemporanea.
Accogliere pienamente il fuori, ciò che rappresenta l’imprevedibile in senso lato, significa assumerne il punto di vista, ovvero non pretendere di abbracciare l’interezza della realtà che ci circonda, ma lasciarsene attorniare senza condurne per forza ad unione gli aspetti frammentari. Tale atteggiamento è tipico della fotografia, che accetta senza commento sia di prelevare pezzi di mondo in modo limitato, sia di renderne evidenti i meccanismi aleatori, grazie alle sue caratteristiche concettuali.
Dando un nome alle cose noi contribuiamo a conferire loro un senso unitario, sebbene ciò vada a discapito di una perdita di altre informazioni che esse trattengono entro di sé, perché la cosa che si lascia osservare e nominare, prelevare anche, potrebbe conservare nel tempo aspetti e legami insoliti ed extra-ordinari con una realtà che resta comunque al di fuori di noi stessi.
All’origine della lingua giapponese, ad esempio, non esistevano né il termine “natura” né tanto meno “arte”, poiché nominare un fenomeno significava circoscriverlo portando l’anima a dissociarsene, non riuscendo così a trasmettere un canto spontaneo all’unisono col mondo.
Lo statuto semiologico di indice o traccia tipico dell’immagine fotografica , invece, permette un contatto silente, “armonico” col mondo, con ciò riferendomi alla definizione di armonia “muta” che dà Leibniz per bocca di Deleuze nel saggio “La piega”. Il filosofo secentesco considera infatti il canto dell’anima come “una scrittura verticale, che esprime la linea orizzontale del mondo: il mondo è come una partitura musicale che si segue cantando in maniera sequenziale o orizzontale, ma l’anima canta da sé, poiché tutto lo spartito è stato impresso in essa verticalmente […] le “forme” verticali assolute rimangono senza comunicazione, e non si passa dall’una all’altra per contiguità […] Leibniz parla dunque di un concerto in cui due monadi cantano ciascuna la propria partitura senza conoscere o sentire quella dell’altra, e tuttavia si accordano alla perfezione” . E l’assenza di parole che accompagna questa immagine del mondo si accorda all’immagine fotografica come registrazione e documento del mondo stesso, perché “il genere documentario sembra innescare un desiderio di informazione che il mutismo della fotografia non può soddisfare. E’ a questa doppia sensazione di desiderio e di insufficienza, parte integrante dell’esperienza fotografica, che rimanda Walter Benjamin quando parla della didascalia come ‘segnaletica’ resasi necessaria per questa lacuna intrinseca al mezzo. […] Nella misura in cui la fotografia cattura un pezzo di mondo, lo fa in blocco e rinvia così il processo dell’elaborazione del senso verso il supplemento costituito dalla didascalia scritta” . Lungi dal raggiungere un’unità semantica con l’immagine, la didascalia però le si accosta in maniera dialogica, moltiplicandone i possibili sensi anziché spiegarla in maniera univoca. I due campi rimangono totalmente indipendenti l’uno dall’altro e la loro autonomia non fa che accrescere il loro senso di presenza e di fattualità, nonostante o proprio grazie alla loro stessa natura frammentaria. In questo senso Krauss descrive il campo fotografico come la dimensione del non simbolico o preverbale, in cui il soggetto, “investito di immediatezza corporea molto forte, si proietta al tempo stesso verso l’esterno in immagini speculari. Tuttavia queste immagini, che sono distinte dal corpo ed esistono all’esterno in uno spazio visivo, restano, malgrado tutto, identificate con lui. A causa di questa confusione, l’abitante dell’immaginario non ha identità univoca od orientata intorno a un punto focale unico, perché la sua identità è simultaneamente costruita da se stesso e da un altro. Si dà così libero corso a questa prospettiva doppia molto particolare che costituisce il transitivismo, cioè una localizzazione incerta dell’‘io’ che potremmo chiamare l’anamorfosi dell’osservatore.

Skype Me™! Tesionline Srl P.IVA 01096380116   |   Pubblicità   |   Privacy