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Intervista ad Hannes Schick
Fotoreporter di fama internazionale, professionista impegnato nel reportage di viaggio, sociale e di guerra, intervistato da Erminio Annunzi, affermato fotografo di natura, paesaggio e reportage.


[05/03/2008]
Intervista ad Hannes Schick Cosa sappiamo del fotogiornalismo? Quali sono i miti da sfatare e gli aspetti da confermare? Qual è il rapporto fra fotografia e sofferenza umana? E quale la responsabilità del fotoreporter come testimone dei fatti?

L’intervista che segue si pone come obiettivo quello di dare risposta a queste domande, attraverso il confronto fra due fotografi del settore, Erminio Annunzi e Hannes Schick.

Pone le domande Erminio Annunzi, dedito alla fotografia di natura, paesaggio e reportage, figura eclettica e poliedrica, che collabora con importanti testate giornalistiche, non solo in qualità di fotografo, ma anche come giornalista/intervistatore. Risponde Hannes Schick, noto fotoreporter, impegnato in tematiche sociali e geopolitiche, che ha realizzato diversi reportage su questi temi: lo sterminio delle tribù dell’Amazzonia, le popolazioni Indios del Centroamerica, le guerre civili in Nicaragua, Guatemala ed El Salvador, la prostituzione minorile in India e gli effetti delle mine antiuomo in Cambogia.

www.hannesschick.com
www.photographerspro.eu/erminioannunzifotografie


Fotografia di reportage: denuncia o sfruttamento della sofferenza umana?

E: Cosa vuol dire per te la fotografia di reportage?

H: Reportage per me significa raccontare per immagini eventi, persone, luoghi e cose, il mondo circostante. Per voglia di comunicare, per l’esigenza di denunciare o semplicemente per passione o curiosità. Per me significa esprimere il disagio o la gioia che sento di fronte ai fenomeni del mondo, dall’ingiustizia sociale alle meraviglie della natura, dai crimini delle guerre e dei soprusi sulla gente ai segnali delle nuove generazioni, dagli eventi sociali a quelli culturali, dalle scoperte scientifiche alle avventure e i viaggi, piccoli o grandi che siano. Vuol dire scoprire e approfondire qualcosa per se stessi e comunicarlo agli altri.

E: Il reportage fotografico è documentazione e testimonianza di eventi spesso fondamentali, non pensi che troppo di sovente, per fare colpo ed avere la “notizia”, si usi in maniera disinvolta la sofferenza umana?

H: Si e no. Dipende dal fotografo. La stessa situazione può essere fotografata in modo cinico o compassionevole, da una persona disinvolta o coinvolta riguardo la sofferenza umana, da chi vuole guadagnare fama o denaro o chi invece cerca di comunicare un fatto denunciando o correndo in difesa o rimanendo neutro. Dipende dalla motivazione del fotografo. Anche un medico può essere disinvolto o coinvolto di fronte alla sofferenza umana.

E: Come vedi il ruolo della fotografia di reportage o come spesso si preferisce chiamarla oggi giorno, fotogiornalismo, nel panorama della comunicazione moderna?

H: Dopo aver vissuto un momento di gloria e mito, dalla seconda guerra mondiale fino alla guerra del Vietnam e gli eventi degli anni sessanta e settanta, il reportage fotografico ha perso importanza. È un mezzo di comunicazione molto potente che oggi sta tornando un po’ sulla scena senza però trovare molti spazi, internet a parte. La fotografia per poter comunicare ha bisogno di molto tempo e spazio. Questo vuol dire tempo per essere guardata e spazio su un mezzo di comunicazione come una rivista o un quotidiano. Questo spazio spesso non viene concesso così come a monte non viene concesso o fortemente controllato l’accesso del reporter alle fonti delle notizie. Questo si è verificato nella prima e seconda guerra dell’Iraq.

E: Credi sia necessario ripensare al ruolo del fotogiornalista, nell’ambito del modificato panorama della comunicazione?

H: Il fotogiornalista si deve rinnovare, andare al passo coi tempi, utilizzando i mezzi che la tecnologia di oggi gli offre. Questo permette rapidità di trasmissione delle immagini dal produttore all’utente, come si direbbe in economia. Permette anche risparmio. Oggi non devo più spendere soldi per il materiale fotosensibile e anche gli spostamenti aerei costano meno. Poi internet offre un nuovo canale di comunicazione. Sono aspetti positivi in un mondo che non vuole più riflettere tanto su se stesso e meno ancora osservarsi con immagini critiche.

E: Il web è in grado di mostrare immagini di fatti che accadono in tempo reale, di mostrare la sofferenza, la disperazione, senza, non certo una censura, ma una mediazione dei fatti. Non vi è il rischio che, contrariamente al fotogiornalista il quale si prende la responsabilità di ciò che mostra, la presunta democraticità del web si dimostri nella realtà, il luogo dove poter agire in perfetta ombra e comunicare in maniera distorta?

H: La comunicazione fatta nell’ombra è sempre esistita. Oggi viviamo in un mondo veloce e ognuno deve saper scegliere quello che vuole vedere e cosa no. La democrazia comporta questa assenza di filtri e porta con sé la responsabilità per ognuno di censurare da solo le proprie fonti d’informazione. Il problema poi non è internet o la demagogia che si può fare su di essa ma le troppe immagini che vediamo ogni giorno. E’ che si mischia realtà e finzione. Questo è un fenomeno che non accade solo in rete ma anche nella comunicazione in generale. Per avere audience o visuence, come nel nostro caso, si è tentati di forzare o di magnificare per raggiungere il target.

E: Affrontiamo un tema che a me sta particolarmente a cuore: la veridicità del rappresentato. Pensi che ci sia un problema per quanto concerne la modalità di uso di un immagine e che al contempo, possa essere valido l’assioma fotografia uguale realtà/verità?

H: La fotografia non è necessariamente oggettiva, perché la realtà/verità si presta ad infinite interpretazioni. Al contrario di quello che dice Benedetto XVI, è relativa. Comunque nella fotografia c’è un fattore di “verità” perché il fotogiornalista si deve recare sul luogo dove succede il fatto. Il giornalista no. Il giornalista può scrivere anche se non ha visto di persona. Il fotografo può manipolare o distorcere quello che vede, ma lo fa se non sa cos’è l’etica professionale. Comunque anche un fotogiornalista “veritiero” può vedere in seguito le sue foto manipolate dal mezzo di comunicazione che li pubblica. Basta toglierle dal contesto o dall’intento con il quale venne realizzata. Un carro armato che avanza contro un protestante per alcuni significa un mezzo d’oppressione per altri un mezzo per restaurare l’ordine.

E: Nel tuo lavoro di reporter quale spazio trova la partecipazione emotiva alla sofferenza e al dolore dei soggetti che spesso ti trovi a riprendere?

H: Dipende dai fatti che racconto ed è strettamente legato alla mia evoluzione personale. Mentre una volta ero sempre a favore dei deboli e sostenevo con passione le causa dei ribelli, perché io ero ribelle, oggi cerco di comprendere anche i potenti. Non di giustificarli ma di comprendere le loro azioni. Sono diventato più saggio e vedo il mondo, le persone e gli eventi inseriti in un contesto più vasto, più universale. La mia passione però è rimasta con chi s’impegna e lotta per un mondo più giusto, più pulito e più etico solo che oggi l’oppressione è molto sottile e non facilmente fotografabile.

E: Puoi raccontarci un aneddoto, che possa illustrare dal lato umano, un legame che è nato tra te e un soggetto fotografato?

H: Conoscevo una bambina, Asia, di nove anni, che viveva vicino all’appartamento dove vivevo io durante la guerra in Bosnia. Scherzavamo e giocavamo quando tornavo dai miei giri e diventammo amici. Un pomeriggio tornai e vidi un buco nel muro della sua stanza. L’ho vista poi, coperta di polvere grigia, come la statua rotta di un angelo. È l’unica persona che ho fotografato alla quale penso ancora spesso. Penso a quel gioco, interrotto da uomini che non sapevano neanche cosa facevano mentre caricavano i loro canoni, bevendo grappa di prugne.

E: Ed ultimo ma non ultimo: cosa vuole dire per te essere un fotogiornalista?

H: Questo spero che lo dicano le mie fotografie e le risposte che ho dato qui sopra.

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